Al ritmo di andale, andale

Se ne parlava l’altra sera con un amico e collega di quanto sapere dove si sta andando sia importante. Se ne parlava l’altra sera del falso mito che lavorare in agile significhi andare più veloci. Se ne parlava tempo fa di quanto l’agilità sia confusa con la velocità. E ancora della velocità e della fretta. Di come questa società della performance viva in un ritmo di botta e risposta forsennato solo per restituire al mondo un pezzo di sé, una presenza tangibile dell’io, un segnaposto, un balzo in avanti al gioco dell’oca. 

Tutti in fila per un giro sulla giostra del fare veloce per fare di più. Andale, andale. 

Era qualche anno fa e un’azienda mi aveva chiamato per aiutarli a sviluppare un nuovo software. Un’idea nata da una serie di bisogni e sollecitazioni raccolte dai loro clienti. 

Il team era composto dal manager che aveva ottenuto spazio per l’investimento interno necessario per lo sviluppo del progetto e che portava la voce del business, due ingegneri funzionali – di cui uno con un ruolo di responsabilità rispetto all’avanzamento del progetto stesso – uno sviluppatore ed io che avrei dovuto accompagnare il team dal punto zero al primo MVP su carta e poi lungo il primo percorso di sviluppo.

Mi pagano per questo, per aiutare i team a spostarsi bene da A a B. 

Secondo il manager il team era allineato e pronto a partire, ma al primo incontro chiesi a tutti di raccontare quello che sapevano del progetto che dovevano realizzare. Il risultato fu fantastico: 3 obiettivi e racconti diversi dai ragazzi del team. Nessuno sbagliato, ma tutti parziali. Il manager chiuse quel giro di tavolo come voce di raccordo, pulizia e ampliamento delle narrazione, evento che lasciò il team con una visione decisamente più ampia e complessa della sfida per la quale erano stati chiamati, con un’idea più chiara delle responsabilità personali e delle decisioni che avrebbero dovuto prendere come team, lontani dalla protezione di mamma chioccia. Dal canto mio capii che il primo lavoro che c’era da fare era uniformare quelle voci per aiutarli a costruire qualcosa che tutti potessero raccontare in modo semplice. 

Ci volle qualche settimana, ma alla fine capimmo chi erano i destinatari del prodotto, i loro bisogni e che cosa avremmo dovuto fare per soddisfarli. Poi passammo in rassegna tutto il processo di gestione dell’oggetto che stava al centro del progetto e le eccezioni primarie che avremmo dovuto gestire. Ne uscimmo, sul finale, con un MVP e un primo tratto di sviluppo chiaro. La presentazione fu un successo e da lì a breve iniziarono i lavori. 

Ci volle del tempo e per di più dedicato solo a questo progetto, ma se ci fu qualcosa che tenne quei ragazzi in quella stanza, quella cosa fu la chiarezza, l’avanzamento continuo e la comprensione di dove stavamo andando: direzione e obiettivo.

Tutto intorno fremeva. Lo dico perché se il contenuto è il re, il contesto in cui prende forme è il suo reame e non è possibile non considerarlo. In un’azienda votata allo scatto felino, in un’azienda in cui andale, andale sembra l’unico ritmo possibile, lasciare un gruppo di persone in una stanza a prendersi il tempo necessario per portare una risposta di senso non fu facile.

Fatto sta che da lì a poco gli sviluppi iniziarono e iniziammo a ricevere i primi feedback concreti sul prodotto. Parallelamente qualcosa cambiò e l’azienda perse direzione. Si diceva una cosa e se ne faceva un’altra, ognuno ricorreva quel che poteva raggiungere senza soluzione di continuità. Così – al ritmo di andale, andale – nel giro di poco tempo il ritmo di lavoro rallentò, le risorse necessarie per lo sviluppo del progetto interno vennero meno, una possibilità di crescita per le persone fu persa e un potenziale elemento di vantaggio competitivo sul mercato venne lasciato in un cassetto.

Se qualcuno rispondesse che in questo caso andale, andale era una condizione esterna che il team ha subito, non mi sentirei di negare l’influenza che il contesto generale provoca su un gruppo di lavoro, ma metterei l’accento sul fatto che la fretta è uno dei tratti culturali più comuni all’interno delle organizzazioni. E che se da un lato viene stimolata da una serie di fattori ambientali come l’evoluzione tecnologia, dall’altra parte è sostenuta dalle persone che, più o meno consapevolmente, tendono a perpetuare lo status quo anche quando è disfunzionale.

Perché investire tempo nel comprendersi se possiamo perderlo rincorrendoci l’uno con l’altro da qui all’infinito? 

Giusto per dirne un’altra: qualche settimana fa stavo facendo osservazione al team di un collega che stava lavorando per costruire su una lavagna condivisa la mappa di un nuovo prodotto digitale. Anche qua.. target, bisogni, valore da consegnare, priorità e bla, bla, bla. Per questo team, abituato a lavorare in altro modo, era la prima volta che il lavoro veniva portato avanti in co-creazione e uno dei partecipanti a un certo punto se ne uscì più o meno “Cioè, questa cosa del fare le cose insieme è davvero bella e utile. Davvero, non c’è dubbio, ma.. non si può fare più veloce? Scusate, ma io non so come dire…ho proprio fretta.” 

Fretta di cosa giuro che non si è capito. Non c’era una scadenza per una presentazione interna, né un fornitore a cui dover rispondere e men che meno la comprensione di quello che si dovesse fare. Era proprio la fretta, l’abitudine ad andare – semplicemente andare, andare per andare. Dove e come poco importa.

Tutto questo per dire che andale, andale è ritmo bellissimo e pieno di vita, ma prima di spingere il piede sull’acceleratore è utile avere una risposta corale alla domanda “dove stiamo andando? che cosa stiamo facendo?” che alla fine è l’unico modo reale per risparmiare tempo e problemi. 

Andale, andale? 

Approfondimenti:

>> What are you willing to give up to change the way we work?
>> Go slow to go fast
>> Speed as a habit 
>> Can humans survive a faster future?

 

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